Bellezza.
Una parola che siamo abituati ad associare al concetto di frivolezza, leggerezza, volubilità. Ma è davvero così?
L’Enciclopedia Treccani ci dice che di anniversario della morte ne parlava già Tertulliano, uno dei più grandi scrittori della letteratura latina; Oltre Magazine ci racconta di origini celtiche e legate a Samhain.
Oggi vogliamo arricchire il vostro immaginario dando una visione particolare, forse inedita per alcuni di voi, della bellezza, e per farlo vi raccontiamo di un servizio offerto da ogni agenzia funebre.
Con una definizione semplicistica possiamo dire che la tanatoestetica è una disciplina il cui scopo è migliorare l’aspetto esteriore dei nostri cari defunti.
È un processo complesso, compiuto da un tanatoestetista esperto, che segue dei passaggi ben definiti, primo fra tutti la pulizia della salma: il corpo del defunto viene pulito e disinfettato, facendo una pulizia accurata e approfondita su ogni parte del corpo.
Terminata questa fase arriva la vestizione del defunto e il trucco: si cerca di riportare il corpo ad un aspetto il più sereno e naturale possibile, come se stesse semplicemente dormendo. Il servizio di vestizione salma infatti è solo una parte di tutto il processo che, come vedremo, è molto più articolato.
Perché decidiamo volontariamente di dare un aspetto più armonioso ai nostri cari che non ci sono più? La risposta all’apparenza è semplice: per mantenere nella nostra mente un’immagine positiva, ed è assolutamente vero.
Ma c’è dell’altro: è anche una sorta di ultimo atto di cura e soprattutto un modo per evitare di creare un ricordo traumatico: non è un caso che quando trattiamo dei corpi che hanno affrontato brutti incidenti o malattie importanti, alle volte si rende addirittura necessario ricostruire alcune parti.
Grazie ai trattamenti effettuati dal tanatoestetista, il defunto evita di presentarsi esattamente com’è, perché “esattamente com’è” finirebbe per apparirci irriconoscibile, altro, disumano.
Ogni persona ha una propria concezione della bellezza ed una propria definizione che ben lascia trasparire molto della nostra personalità: per alcuni è un semplice concetto astratto, per altri è apparenza e superficialità.
La bellezza di fatto non ha una sola definizione, è un costrutto sociale che cambia di cultura in cultura, di popolo in popolo. Parlare però di superficialità effettivamente non è del tutto sbagliato: aspettate, spieghiamo meglio, non pensate solo al termine sostantivante e spesso associato ad una connotazione negativa, pensiamo piuttosto alla connotazione materica e materiale: la superficie.
L’estetica si prende cura della nostra superficie esteriore, di ciò che di noi è visibile, vero, materico: curiamo il nostro viso, la nostra acconciatura, il nostro look e lo facciamo cercando di adattarlo il più possibile a ciò che abbiamo dentro.
Quando ogni mattina ti svegli e cerchi cosa indossare, come truccarti o quale acconciatura avere, stai in realtà cercando di capire cosa senti dentro di te, stai cercando di ricondurre le fattezze a ciò che sarà chiamato a significare per gli altri: sempre a correre dietro ad un a forma di corrispondenza fra ciò che è all’interno e ciò che è all’esterno.
Il corpo è sempre più visto come un mero contenitore, qualcosa che deve rappresentare la nostra identità, e questo vale anche quando non siamo più in vita, non è un caso che quando raggiungiamo una certa età, cominciamo a scegliere il nostro vestito migliore, perché non si sa mai nella vita. E se non lo facciamo noi, lo fanno i nostri cari per noi.
Di superficiale quindi non c’è molto se non la sfumatura semantica che vi abbiamo raccontato prima.
Non si tratta di una semplice sentenza latina ma anche una verità antropologica. La nostra società infatti è ancora fortemente legata al dualismo “mente-corpo”: abbiamo un corpo biologico, che sostanzialmente è quello fornito da madre natura, e un corpo sociale, che viene modificato e adeguato in modo più o meno invasivo per cercare di essere appropriato a schemi condivisi.
Non è un caso chiamarlo “corpo sociale” poiché è spesso legato alla cultura, al momento storico, all’era in cui viviamo: un esempio chiaro è quando alle scuole superiori scegliamo di indossare quel maglione piuttosto che un altro per una semplice questione di accettazione sociale.
Quando arriva il momento di lasciare questo mondo, il nostro corpo viene quindi preparato e curato esattamente come fosse ancora in vita: chi ha raggiunto consciamente il proprio traguardo ha avuto la fortuna di decidere come mostrarsi al mondo, e quindi decidere come far corrispondere il proprio corpo sociale a quello biologico; altri invece non hanno potuto avere questa possibilità – è il caso delle morti accidentali – e per questo i familiari cercano di riportare il più possibile vicino il corpo sociale a quello biologico di loro memoria.
Vogliamo chiudere questo articolo lasciandovi un concetto positivo della morte. Siamo abituati a viverla e saperla come qualcosa di estremo, di definitivo, di finale, ed è proprio sul concetto di fine che vogliamo porre la vostra attenzione.
La morte è un concetto ancora molto compreso e studiato, non è di certo la comfort zone di nessuno, ma è qui che ci sbagliamo: in realtà noi viviamo continuamente episodi – metaforici – di morte.
È morte ogni fine: di una relazione sentimentale, di un viaggio, di un libro, di un contratto d’affitto, un cambio di lavoro, un’amicizia.